Capitolo Ventesimoquinto




Volterra

 

Era Francesco Ferruccio. Lui s’inoltrò con passi gravi, e in sembiante severo; ma quando vide la fanciulla atteggiata di dolore, quasi statuetta che un bel pensiero di artista abbia posto sul sepolcro di un primogenito o di sposa nuovamente divelta dalle braccia – forse dal cuore – dell’amato consorte quando dal volto di Vico e di Lucantonio conobbe l’angoscia esser passata colà, di severo divenne mesto ed appoggiò il gomito destro sul pomo dello spadone, sopra la mano la faccia. E dopo alcun tratto di tempo incominciò:

“Ludovico, io sono venuto a dirvi addio. Prima che nasca il sole, mi ì forza partire in servizio della Repubblica per impresa piena di pericolo e di gloria. I giorni dell’uomo sono uguali ai passi del viandante, – i giorni del soldato trovano appena paragone nei passi del cavallo che fugge”.

Ludovico alzò gli occhi attonito e rispose:

“Perché rimango io?”

“Per ordine dei signori Dieci consegnerò” la terra al nuovo commissario Andrea Giugni…”

Costui conobbi sempre studioso della licenza, la quale, finché non trovi luogo a dimostrarsi nel suo brutto sembiante intera, assai sovente si scambia con la libertà, uomo di corrucci e di sangue, non di quell’animo fermo che i gravi casi della patria domandano, di costumi corrotto e superbo, ogni bene riposto nei grossolani diletti della vita. La impresa a cui mi prepongono i Dieci gioverà assai alla salute di Firenze, Perché, vincendola, come, da Dio sovvenuto, confido, ridurrà alla sua devozione una città ribelle, e il suo credito scaduto verrà a rinverdire; in ogni caso, scemerà forza all’esercito, Perché Orange manderà gente a tentare di ricuperarla. Però il danno non compenserebbe il vantaggio perdendo Empoli: finché conserviamo questa terra, non sarà mai spacciata la patria; la campagna ci è aperta fina a Pisa, comodissima ci sovviene la facilità di provvedere gli assediati; insomma il Palladio di Firenze si conserva qui dentro. Or dunque voi comprendete di quanta importanza mi sia lasciarvi persona sicura che vigili attentissima tutti i casi che possono accadere alla giornata e me ne ragguagli con diligenza”.

“Ma”, – riprese esitando Ludovico, – “la promessa che voi faceste al padre mio moribondo mi suona diversa; o non prometteste voi ch’io vi sarei morto al fianco per la patria combattendo?”

“Vico, io non muto mai; ma dite: voi da quel tempo in poi nulla vi sentite mutato? Allo amore di patria non si mescolò per avventura un altro amore? Vostro malgrado, non si levò nel cuor vostro un istinto di conservazione per la vostra vita dacché un’altra vita vi preme molto più della vostra? È santo il vostro affetto, ed io lo approvo; pure sarebbe stato meglio che vi avesse acceso in altra stagione. Ma i fati reggono gli eventi; io poi non domando mai cose superiori alla umana natura; male, penso, si lascia il fianco della sposa per affaticarsi quotidianamente al raggio del sole in battaglia”.

“Messere, l’uomo difenderà per religione quel sepolcro, Perché contiene le ossa de’ suoi congiunti e conterrà le sue; ma se vi aggiungi la difesa della sua sposa e dei figliuoli, allora il soldato ti parrà fulmine di Dio contro i nemici: io mi rammento avere udito raccontare dal padre di Vico come gli antichi Spartani non accettassero combattenti nella falange sacra dove non fossero innamorati…”

“E che vorreste fare, giovanetta?” – le domanda amorevolmente il Ferruccio.

“A lui”, – riprese Annalena additando Vico, – “quello che spetta a moglie d’uomo che combatte per la difesa della patria; a voi quanto incombe a figliuola di padre affettuosissimo: io per me abborro il sangue, e la guerra ì necessità che deploro con tutta l’anima; appresterò bende e rimedi alle ferite mentre voi vi avventurate al pericolo di riceverle; vi veglierò infermi; vi tempererò con freschi pannilini l’ardore delle membra quando vi travaglierà la febbre; riceverò nel mio seno il colpo che vi sarà indirizzato… vivrò con voi, e per voi morirò”.

Il matrimonio di annalena e Vico fu celebrato nelle domestiche pareti, chì prima del concilio di Trento molte formalità, diventate in seguito sostanziali, si trascuravano; mancarono i riti solenni; non vi assistì la corona dei parenti e degli amici. Il Ferruccio, modesto com’era, andò lui stesso per il prete. Furono nozze dicevoli al soldato in procinto di perdere la vita, alla donna che corre pericolo di diventare vedova prima che sposa. La religione del cuore supplì alle pompe religiose, l’amore immenso dei pochi alla proterva allegrezza dei molti convitati.

Compiti appena gli sponsali, Vico baciò in fronte la sua donna e tenne dietro al Ferruccio disposto a partire. Il Ferruccio, accompagnato dal nuovo commessario Andrea Giugni e dai capitani che lasciavano alla difesa di Empoli, Piero Orlandini cui lui stesso con fervidissime istanze aveva più volte raccomandato ai Dieci come prode non meno che prudente uomo di arme e della libertà sviscerato, Tinto da Battifolle, Bocchino Corso e il conte di Anghiari, percorre le file, esaminando se avessero trasgredito in nulla i comandamenti di lui. Affrettati i passi, Il Ferruccio giunse in Volterra il giorno stesso 26 aprile che si partì da Empoli, trascorsa appena la ventunesima ora: subitamente introduce i fanti per la porta del soccorso nella cittadella; fatti smontare i cavalleggeri e cavare le selle ai cavalli, per la medesima via gli mette dentro.

Ferruccio intanto, quasi il sole non gli avesse riarsa la faccia, il cammino stancate le membra, la fatica e la polvere assetato, taciturno si aggira per le mura della cittadella, specola i luoghi, esamina i muri, nota le archibusiere avverse, poi assente col capo ad una sua interna determinazione e, percotendo della palma aperta il parapetto, esclama: “Può farsi!”

…Cominciato l’assalto di Volterra: il Ferruccio con la sua mente pensò quell’assalto e con le sue mani lo vinse; preso da furore, cominciò da ferire quanti tra i suoi mostravano viltà, e fatta una testa di cavalleggieri armati a piede, si caccia avanti e riesce a capo della Via Nuova. Allora presero a rompere i muri delle case e sforzarsi di entrare; la disperazione da un lato e la speranza presentissima di vincere dall’altro riaccendono la mischia; di qua e di là, morti e ferite. Pur finalmente i muri furono rotti, i Ferrucciani si spandono nelle case. Allora comincia una guerra spicciolata su pei tetti, nelle cantine, di stanza in stanza, con molta strage dei soldati e dei cittadini di Volterra. I Ferrucciani, dalla dura resistenza inacerbiti, non serbano più modo, ed agli orrori già tanti aggiungono il fuoco, il quale apprendendosi agli antichi edifizii, come voglioso di primeggiare nella opera della distruzione, in breve ora riduce in cenere quaranta case: le avrebbe distrutte tutte, se all’improvviso squarciandosi il cielo con procella di saette e di tuoni non avesse mandato giù un acquazzone, il quale spense il fuoco e le forze degli assalitori spossati dal cammino e da sei ore di affannoso combattimento.

Nel giorno 13 giugno già tre furono gli assalti: il primo con dodici compagnie, il secondo con diciotto, il terzo con venticinque, combatterono dall’alba fino alle 23 ore di sera, e dei nimici morironvi 400, altrettanti i feriti: ai nostri mancò la munizione di polvere. Il Ferruccio rimase ferito nel secondo, non già nel primo assalto: molti dicono di una sola ferita: il Varchi ne parla in plurale: nella lettera del 6 luglio scritta dai commissari di Volterra ai Dieci, oltre la percossa ricevuta alla batteria, si rammenta la cascata da cavallo: e il Diario dello Incontri riporta del pari di una mala ferita che si fece al ginocchio, per esserglisi abbattuto sotto il cavallo mentre con gran impeto si spingeva ad ammazzare un Volterrano che vide starsene scioperato invece di accorrere ai bastioni: alla quale si aggiunse la febbre: e si fe’ portare dove si combatteva per essere veduto dai soldati. Questo secondo assalto incominciò il 21 giugno, un’ora prima del giorno; dopo 500 cannonate che atterrarono in più parti le mura riparate con botti, materasse e terra, alle ore 20 salirono all’assalto: tre volte si spinsero su la breccia, e tre furono respinti così duramente che dopo quattro ore si dettero alla fuga lasciando sul campo 800 tra morti e feriti. Quando l’esercito imperiale si partì con tanta vergogna, i Ferrucciani gli corsero dietro menando rumore con teglie, padelle e corni, dicendogli villania. Fabrizio aveva tratto seco 500 fanti e 5000 cavalli: il marchese 4000 fanti: bagaglioni e marraioli non si contano.

 

Capitolo Ventesimonono



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