Spunta il giorno: ma quantunque fosco, concede agli Orangiani la vista della bandiera imperiale inalberata su l’asta sotto la bandiera del comune di Firenze, e ciò li concita a rabbiosissimo sdegno; la luce ancora manifesta al nemico il piccolo numero dei nostri, e ciò gli partecipa ardimento. Filiberto spedisce ai colonnelli lontani messaggi con gli ordini accomodati alla occorenza; crollansi le compagnie e cambiano forma: era adesso suo disegno indirizzare alle punte estreme dell’ale della nostra milizia una mano di cavalleggeri e di fanti meglio spediti per circuirla, e così divisa dalle mura tagliarle la ritirata e poi a bell’agio piombar addosso col grosso dell’esercito e sterminarla senza rimessione; se gli veniva fatto di superare l’ale, non uno dei giovani fiorentini sarebbe tornato a Firenze. Il signore Stefano, se avesse condotto numero pari di gente, o lo avesse avuto di poco inferiore, certamente avrebbe disteso le file all’avvenante che le allargava il nemico, dopo attelati gli eserciti, non si sarebbe rimasto dallo ingaggiare battaglia sopra tutta la fronte; ma essendo pochi, conobbe non avanzargli a perdere più tempo e dover mettere ogni studio a ritirarsi; attese pertanto a rendere vano lo sforzo del nemico, prevenendo il suo moto; ordina ai capitani delle due punte girino velocissimi sul fianco destro i soldati che a lui posto nel centro stavano a mano sinistra, sul manco, quelli che gli stavano a destra; e descritta sul terreno una linea sferica, si uniscano in colonna ritirandosi per alla Porta di San Piero Gattolino; lui aveva molto bene considerato come così procedendo i cavalli nemici potevano cogliere di fianco la colonna, romperla quasi serpe sul dorso e impedirle ogni via di salute; e a questo sperò provvedere con la celerità dei passi, per cui, lasciato aperto certo spazio di terreno davanti i nostri, le artiglierie delle mura senza timore di offenderli potessero fulminare gl’imperiali e trattenerli da molestare la ritirata. Io non so quello sieno per dire i presenti uomini di guerra sopra tali ordinamenti di milizia; quello che so troppo bene si è che anche con quei modi la umanità si lacerava e faceva delle sue osse biancheggiare la campagna; miserabile nostro destino, di cui non ispero, almeno per qualche migliaio di secoli, la fine.
Non andarono falliti i concetti del Colonna: le artiglierie fecero buonissima prova; gli Orangiani, essendo stati alquanto sospesi, perderono il destro a inseguirli; posto uno spazio tra loro e i nostri, costoro diventarono segno della tempesta di fuoco e di ferro che prorompeva fuori delle mura; quasi a morte certa correva chiunque si fosse avventurato su quel terreno. O per prudenza del capitano, o per beneficio della fortuna, vedevano gli Orangiani sfuggirsi di mano una preda ormai tenuta sicura. Ora avvenne come tra i primi cavalleggeri spediti dal principe a circuire l’ala sinistra del nemico si trovasse Giovanni da Sassatello, soldato italiano quanto valoroso in arme, altrettanto perduto di fama. Lionardo Frescobaldi, giovane d’inestimabile bellezza di corpo e di animo ferocissimo, caro sopra modo al Morticino degli Antinori più per questa seconda che per la prima qualità, veduto per caso il Sassatello, lo chiamò con gran voce:
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“O ladro, fàtti oltre! – O ladro, non hai le gambe, come le mani pronte? Fàtti oltre! Le palle di Firenze ti talentano meno dei suoi fiorini!”
Una palla vola tra la testa del cavallo e il capo del Sassatello, un’altra gli porta via il cimiero, un’altra interrandosi presso a lui lo cuopre di fango: ma i suoi giorni sono contati; lui procede sicuro come sotto le volte di Santa Maria del Fiore.
Lionardo afferra con ambe le mani la picca, che in quei tempi le fanterie usavano lunghissima, ed aspetta a piì fermo il momento di spingerla nel collo del cavallo; dove ciò gli venga fatto, il destriere stramazzerà in un viluppo col suo signore, e mentre questi grave di armatura tenterà sollevarsi, lui, stretta la spada, lo spaccerà da questo mondo. E se il destriero non era più sagace del suo signore, senza fallo gli riusciva; ma l’animale saltando destramente da parte, schiva la punta la quale sfiorò in passando la gamba al Sassatello. Lionardo subito si volge impetuoso per timore di essere preso alle spalle; la troppa previdenza e la troppa prestezza gli nocquero; forte tenendo pur sempre nelle mani la lunga picca, imbatte nelle groppe del cavallo, che un’altra volta girandosi offerisce campo al Sassatello di ghermire il suo nemico pel collo, e così fece, e trattolo a sì, lo levò da terra. Lionardo si sentiva strangolare; tentò rompersi il collarino e non potè aiutarsi; allora si risovvenne avere la daga, la trasse fuori, e sollevato il braccio incise profondamente il cavallo nella spalla; inferocito l’animale dallo spasimo, imperversa per la campagna traendo in sua balìa cotesti due inferociti. Lionardo agita le gambe per l’aria e stretto alla gola non profferisce parola alcuna di resa; al Sassatello sbattuto dalla corsa non é concesso assestare un colpo; fuga d’inferno era quella.
Né però alcuno si moveva di schiera; solo il Morticino degli Antinori, per ordinario pallido, adesso poi cosperso di più spaventevole pallore, accorre come forsennato, e giungendo le mani gridava da lontano:
“Capitano Giovanni, deh! per Dio, lasciatelo, lui ì un fanciullo: non gli far male, in nome del tuo Cristo; bada.... rammentati che tu pure hai un figlio di età uguale alla sua… Lasciatelo, Giovanni, io vi verrò prigione invece di lui…”
“Vedi il gagliardo! io lo tengo come un’oca… Forse dalle oche imparò a gridare; da cui il combattere? Per avventura, Antinori, da te?”
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“Sì, via, ma rendilo.”
“Io non lo tengo, per soldato, e ne voglio per riscatto mille fiorini d’oro”.
E disparve galoppando. L’Antinori cammina a capo basso e non profferisce parola.
Tornato a casa, chiese bruscamente alla serva: “Dov’è mia madre?”
“Badate, Giovanfrancesco, – pensate ai comandamenti della legge di Dio; io vi sono madre di latte… ma madonna v’è di sangue, non le mancate di rispetto…”
Il Morticino non l’ascoltava e prorompendo nella stanza della madre trovò seduta sopra un seggiolone la vecchia madonna assopita di un sonno leggiero. La vecchia donna, altera del nobil sangue che le scorreva nelle vene, piena della reverenza dovuta alla materna autorità, si levò subito con tale una forza di cui si sarebbe riputata incapace, allontanò da sé la sedia, mosse un passo in avanti e sollevò il braccio destro in sembianza d’imprecare; una striscia di fuoco le attraversò le guancie; gli occhi le si dilatarono minacciosi e terribili: era una figura da Michelangelo.
“Tu tronchi la mia agonia, non la mia vita; per pochi momenti vuoi tu renderti parricida? Va… io…”
“Per Dio, arrestatevi, madre… Io! Qual demonio vi caccia questo pensiero nella mente? Conoscete voi Lionardo Frescobaldi… quel nobile giovanotto che sovente usa qui in casa? Sì, voi lo conoscete… or lui cadde testè prigioniero, e gli hanno posto il riscatto addosso di mille fiorini d’oro: ora nel pensiero di torli in prestanza da altri la mia anima geme per immensa amarezza. Oh! casa Antinora decaduta, quanto t’era lieve un giorno trovare nei tuoi forzieri mille fiorini d’oro!… ”
La vecchia madonna declinò il braccio e sciolse un sospiro; poi strinse in amplesso amorosissimo il Morticino esclamando:
“Sangue superbo – e figliuol mio! tu sei la mia consolazione… Aspetta… Prendi questo scrignetto, Giovanfrancesco; io gli aveva serbati per qualche estremo bisogno della vita… spero che basteranno; or volgono forse cinquanta anni che non gli ho annoverati, quanti essi sieno ignoro… ma spero che basteranno. Va… lasciami in pace… e non farmi più così paurosamente aprire le palpebre… le tengo chiuse per insegnare loro a morire”.
…Il Morticino degli Antinori aveva tolto seco un mulo ed un fante, portava in cima alla picca il pennoncello bianco e camminava, lieto cantando, verso il campo imperiale. Antinori, giunto ai piedi della bastite nemiche, vide ad un tratto abbattere meglio di venti archibugi ed accostare le corde fumanti ai foconi; onde, sollevato il pennoncello gridò:
“Messaggero! – Rispetto al messaggero! Chiamatemi il capitano Giovanni da Sassatello, e ditegli che venga col prigione Perché il riscatto è pronto”.
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Il giorno toccava i gradini ultimi del crepuscolo; il cielo si era mantenuto pioviginoso e tinto in grigio: a qualche distanza appena vi si vedeva.
Mostrandosi da’ bastioni fino a mezzo petto, Giovanni da Sassatello domandò:
“Chi è che mi vuole?”
“Capitano Giovanni, ho qui meco i mille fiorini, rendetemi il prigioniero”.
Qui apparvero due altre figure dietro al Sassatello; una di quelle era Eustacchio unico suo figlio, l’altra il Frescobaldi; questi pareva stanco o ferito, Perché stava abbandonato fra le braccia del figlio del capitano Giovanni, il quale con infinito amore lo soreggeva.
“Di gran cuore, messere Antinori; se non che l’illustrissimo principe ha fatto chiudere di buona ora le porte del bastione e volle la chiave presso di sì, onde non trovo modo per uscire fuori…”
“Poco importa: fate scendere il prigione giù per una scala e poi vi manderò su per una corda il danaro”.
“Prima il danaro”.
“Prima il prigione”.
“Dio vi mandi la buona notte. Andiamcene, Eustacchio…”
“Capitano, ascoltate… non partite… componiamo; mezzi prima mezzi dopo restituito il prigione”.
“Questi mi paiono compromessi da trecconi: di più nobil sangue e di più gentile intelletto io vi stimava, messere Antinori”.
“Or via, calate la corda, e vi manderò il danaro…”
“La corda a un punto io calerò e la scala.”
Così fu fatto: ebbe il Sassatello i fiorini; Eustachio sollevando Lionardo, lo pone su la scala, ve lo adatta, lo lascia. Ah! tracolla giù di un colpo ai piedi del bastione.
“Per la santissima Annunziata”, urla il fante dell’Antinori, “messer Lionardo ì morto!”
“Morto! come morto?” ripete forsennato l’Antinori.
“Vi aveva forse promesso rendervelo vivo?” – forte ridendo diceva il Sassatello, – “il patto era renderlo, ed ecco, io l’ho reso; adesso vi darò anche la giunta. Eustacchio, fa di non mancare quel gaglioffo fiorentino”.
Balenò un archibuso; l’Antinori si sentì tocco dalla palla, ma senza dolore: volle parlare, e non potendo, si morse le mani: una striscia di fuoco gli solcò la guancia, cotesto fuoco era una lacrima: la ribevve; non una stilla deve sgorgargli della immensa sua rabbia. Propone avventarsi alla scala, salire sui bastioni, inebbriarsi nel sangue del traditore: ma, bersaglio a cento archibusi, sarebbe certamente rimasto ucciso; mentre vuol muovere un passo la terra gli manca sotto, e strammazza. Il fante, posti su le groppe del mulo il cadavere del giovane Frescobaldi e il Morticino ferito, riprese mesto la via di Firenze.
Capitolo Decimosesto
La vendetta
Erano cinquecento fanti: cento archibusieri e gli altri quattrocento in corsaletto armati di partigianoni e di alabarde; ai quali si aggiunse una banda della milizia del gonfalone dell’Unicorno capitanata da Alamanno de’ Pazzi; sopra il corsaletto portavano tutti un camicia bianca per distinguersi dai nemici, motivo per cui questa impresa notturna si chiamava incamiciata.
Quanto più possono chetamente s’inoltrano; divisando Stefano Colonna incominciare l’assalto dall’alloggiamento del colonnello di Sciarra Colonna, contro il quale nudriva nimistà mortale, si apprestano a salire su pel poggio per a Santa Margherita a Montici. Alcuni più arrisicati e conoscenti del sentiero trascorrono; ecco sono giunti presso al tabernacolo delle cinque vie, dove i nemici tengono due sentinelle perdute.
“Chi viva?” – gridano entrambe.
“Viva la morte!”
Si ode una procella di colpi; un suono di usberghi percossi sul terreno; le parole: Gesù, abbiate misericordia dell’anima mia! vengono tagliate a mezzo, così ordinando ragione di guerra; quindi un gemito roco, e poi più nulla.
S’inoltrano per la valle che giace tra Rusciano e Giramonte, la passano, già toccano alla coda dell’esercito. Apra l’inferno le sue porte! Ecco improvvisamente danno dentro all’alloggiamento di Sciarra; molti, i più avventurosi, dal sonno si trovano balestrati nell’eternità; altri si svegliano per vedere soltanto la spada che penetra loro nelle viscere: sorge un cieco viluppo, un trambusto di gente che fugge o che muore e un gridare: – Accorruomo! – accorruomo! – arme! aiuto! – e minaccie e preghiere, suoni compassionevoli o ferici. Smeraldo da Parma, luogotenente di Sciarra, corre forsennato per radunare le milizie, rincorarle e far testa; così al buio si scontra nel signore Stefano e lo garrisce come neghittoso; questi, accecato dalla brama di sangue, lo scambia con lo Sciarra suo consorto e gli menando un colpo di zagaglia nel petto, “Sciarra”, – gli grida, – “or ti parrà ch’io sia venuto troppo tosto!” Segue una mischia atroce, i nemici, mentre tentano difendersi, l’un l’altro, confondendosi, percuotono; dove adunarsi non sanno; non risplende lume, per ogni parte li circonda la morte. – Oh Dio! qual desolazione ì mai questa! – potessimo almeno morire da soldati combattendo! – sia tradimento? – tradimento! – tradimento! E lo scompiglio e la strage crescono terribili più, quanto meno veduti. Dove l’affronto mena più tremendo il rumore: la voce del Pieruccio, superando i gridi e le percosse, invoca i lupi e gli avoltoi ad accorrere per satollarsi di carne battezzata.
Dentro una trabacca distesi sopra il medesimo letto dormono due; giovane l’uno, giace nudo avvolto dentro la coltre con un braccio sotto il capo, l’altro penzolone fuori della sponda; il secondo di maggiore età, armato di tutto punto, eccetto dell’elmo; a giudicarne dal volto paiono padre e figliuolo. Giovanni da Sassatello turbava in quel punto un mal sogno; gli pareva che una moltitudine di armati circondasse il letto e ve lo tenesse su fermo; lui si sforzava svincolarsi, e non gli riusciva, dava scossoni, raddoppiava i conati, e sempre invano; grondava sudore, agitava le labbra con sordo mormorio.
Il sogno era verità, almeno in parte; una mano dei nostri penetra nella trabacca e va difilata alla sua volta per ispaciarlo di vita.
Egli continua nel sogno spaventevole; uno degli armati con man potente gli strappa l’usbergo e gli pone una mano sul cuore; per tutte le membra gli scorre ribrezzo; batte i denti e non può proferire parola. Intanto l’armato si trae la daga dal fianco; poi, come se lo impacciasse la visiera, con la manca la solleva. La coscienza del volto del cavaliere gli presenta la sembianza di Lionardo Frescobaldi da lui ucciso, a tradimento, il quale, comechì morto, veniva a prendere la sua vendetta.
I nostri già gli stanno vicini: la sua morte precipita giù dalla punta di un pugnale..
“Morte di Dio, fermatevi!” – urla prorompendo nella trabacca il Morticino degli Antinori, che cercando in ogni lato il Sassatello, si era a caso colà abbattuto in quel punto, e al chiarore della lampada posta sopra la tavola lo aveva ravvisato, – “fermatevi! Se lo uccidete dormendo, voi mi togliete più che mezza la vendetta. Svegliati su, Sassatello, svegliati per contemplare la strage del tuo figliuolo. – e morire”.
Si svegliò lo sciagurato, – stupidì, – stette per svenire, – poi ad un tratto gli rende potente la persona una sopraumana gagliardia; è sbalzato su in piedi, ha stretto una mazza d’arme, abbassa colpi a destra e a sinistra, si versa intorno al letto come serpente col suo corpo flessibile.
Affannosa, anelante, pure ricupera la voce e, “Eustachio”, – grida, – “svegliati, difenditi, figlio mio… noi siamo morti”.
Il giovinetto sonnacchioso:
“Padre, che hai? ” – ma sentendo il fragore delle armi, spalanca gli occhi, vede il pericolo e, ghermita dal capo del letto una spada, si pone con un ginocchio piegato a difendere francamente la sua vita.
“Santi del paradiso, venite in soccorso di noi!” – esclama il padre pur tattavia menando le mani.
“I santi si chiudono le orecchie alle preghiere dei traditori”, – gli gridano dintorno.
Amor di padre lo costringe a volgere la faccia, e contempla il Morticino, il quale, copertosi con la rotella la testa, drizzata la punta della spada, spia il momento di cacciarla nel costato al figliuolo; lui distende la manca e, forte abbrancando l’Antinori pel collo, grida: “Cane, indietro! non me lo ferire, lui ì innocente”.
…Dopo un breve silenzio, silenzio di voci, però che i ferri aspramente battuti tra loro mandassero spaventevole fracasso, il padre in suono di pianto domandò:
“Eustacchio, come ti difendi?”
“Bene…”
Ed in quel punto il giovane toccava una seconda ferita. Finalmente l’Eustacchio cade, il Morticino gli balza sopra, la mano gli pone entro i capelli, intorno al pugno gli attorce, e traendole di forza lo strascina. Il padre, visto quel caso miserabile, non già immeritato, così impetuoso scosse le braccia che mandò quei due che lo tenevano stretto lontani da sé a rotolare per terra, ed accorreva al soccorso… Ma i due caduti urtando nella tavola su la quale ardeva la lampada, la rovesciano; mancò la luce… ma il raggio moribondo si prolunga riflesso sopra la spada del Morticino che si abbassa sul corpo del giovane Eustacchio. Quando le amate sembianze gli scomparvero dallo sguardo al Sassatello, mancate sotto le gambe, venne meno il coraggio, gli si ottenebrò l’intelletto, rimase immobile, pauroso di offendere le membra del figliuolo, non ardiva movere passo: i nemici lo atterrarono, gli avvinsero di corde le braccia; lui non mandò sospiro, non gemito di angoscia; immerso dentro un abisso di dolore, stette muto.
Capitolo Decimottavo
Amore
Lui dormiva, e la vergine gli vegliava a canto, e considerando quella fronte pacata, la prese vaghezza di deporvi un bacio. Il bacio ebbe virtù di svegliare Vico, che glielo rese tremante su i labbri. Gli angioli poterono vedere cotesto atto senza velarsi con l’ale la faccia, imperciocchì loro si amino di pari amore nel cielo. La musa rivelò al poeta la natura angelica: due anime le quali di amore continuo si sieno amate sopra la terra lassù nel paradiso formano un angelo. Ed intrecciando le braccia i due giovani si recarono nel giardino.
“Di’, mi ami, Ludovico?”
“E non te lo dissi le mille volte? e non lo vedi? e nol sai?”
“Lo so, ma poichì una esultanza ineffabile mi scende al cuore nel sentire dalle tue labbra che mi ami, così godo ascoltare perpetuamente ripetuta questa vibrazione armoniosa; i’ fui come il fanciullo che mai non si stanca dal gridare un nome per intenderlo ripetuto dall’eco della caverna”.
“Ma il mio cuore non è mica una spelonca vuota, il grido che ti rimanda non è l’eco della tua voce, lui possiede voce propria e potente come la tua”.
“Sì, – né io voglio cederti in amore – né desidero che tu me.... i nostri cuori sono…”
“Due creazioni gemelle di un medesimo pensiero…”
“Un suono mandato da due corde compagne. Scambievolmente ci tengono luogo di tutto, di padre, di madre, dei parenti più cari; all’uopo ancora potrebbero tenerci luogo di paradiso – e di patria”.
“Di paradiso forse… di patria no…”, disse una voce forte e profonda che spaventò i due amanti; e al tempo stesso videro sorgere dalla terra uno spettro in atto minaccioso. Annalena si stringe ai fianchi di Ludovico e glieli abbraccia trepidamente esclamando:
“O Pieruccio, siete voi? O che fate accovacciato qui dentro al giardino?”
“Il tradimento c’inviluppa nelle sue spire, come il serpente dell’Apocalisse”.
“Tradimento! in nome di Dio, di quali traditori favellate, Pieruccio?”
“Dei traditori ch’io conosco, e qui verranno quando la campana dei Priori avrà battuto mezza notte: io gli ho ascoltati, essi favellano del papa, del Malatesta e dei maggiori cittadini di Firenze; convenuti ormai nel tradimento, e’ pare che non si accordino sul prezzo e sul modo. La patria annega, già sparisce, è sparita, sola una mano tende fuori delle acque, il vortice la travolge, e tutto è finito”.
“Per amore di Dio, favellate, Pieruccio! Non mi celate nulla: amo la patria anch’io, e per salvarla darei la vita”.
“Tu un giorno mi medicasti la testa; ora mi sani il cuore: io voglio abbracciarti; non mi sprezzare, non percotere, veh! Or dunque sappi avere Malatesta Baglioni imbandito una mensa e chiamato a convito i maggiorenti della terra; sai tu di che sono composte le vivande che pose loro davanti? Delle membra della nostra patria. Affrettati; colà troverai un amico del tuo defunto genitore, Dante da Castiglione: quivi incontrerai ancora Ludovico Martelli: di’ loro che qui vengano teco, e qui verranno; se possono condurre compagnia, sarà meglio, altrimenti vengano soli, ma non dimentichino l’arme: va, vola”.
“Ma se venissero”, – soggiunse Ludovico esitando, – “e non trovassero i congiurati, non penserebbero che io mi fossi fatto beffe di loro?” Pieruccio la dubbiezza del giovane considerando e vedendo quanto poca fiducia le sue parole inspirassero, sentì assalirsi da insopportabile fastidio per la vita; onde volgendo i passi vicino ad un albero, mormorò: “Io valgo meno di un cane morto”; e sollevati gli sguardi aggiunse: “Albero, albero, prestami un ramo, io ti darò un frutto… che tu non portasti fin ora… un tristo frutto in verità… un’anima disperata dentro un corpo disfatto....”
“Consolatevi… io vado…”
“Va dunque, ma prima ascolta queste mie brevi parole. Sai tu bene che voglia dir pazzo e che dir savio? Se pazzo è quegli che sul pericolo, addormentandosi, confida a mano ignota la spada che può ferirlo, le chiavi della città allo straniero, già non sono io il pazzo. Tu ti pensavi savio dubitando delle mie parole e ricusando l’andare; eppure fa il tuo conto: andando, forse getterai i passi e avviserai la gente di un pericolo vano: e per altra parte forse tu scoprirai un tradimento, la patria pericolante sosterrai, a mille cittadini la roba salverai e la vita. Or, se tu fossi savio, ti par lui che tra queste due vicende si possa tentennare, tra la permanenza e l’andata? Prima di credere pazzo il tuo fratello, pensaci due volte, e sappi che sovente i consigli di coloro che il mondo reputa savi appaiono miserabili all’alienato di mente: adesso vola”.
E Ludovico senz’altre parole aggiungere si poneva tra le gambe la via. Intanto il cielo aveva mutato aspetto, l’aria si era fatta uliginosa, e d’ora in ora l’agitava un vento soffocante come l’alito del deserto; via trasvolando pel cammino abbandonato, Ludovico udiva sibili spaventevoli, gemiti arcani d’ignoti addolorati. Trovato Dante da Castiglione e Lodovico Martelli, Vico con compagni si mise in agguato vicino al palazzo dove si trovava Malatesta Baglioni. Pur troppo Pieruccio aveva scoperto il vero: tre uomini stavano dietro il palazzo, e sovente con empie imprecazioni dimostravano la impazienza loro, come quelli che avevano lungamente aspettato invano.
Alla fine comparve un punto nero dalla lontana, il quale andava ingrandendosi a mano a mano che si accostava. Pervenuto a convenevole distanza, uno di coloro che aspettavano gli messe contro la voce dicendo:
“Come ti chiami?”
“Mi chiamo Odio; e tu?”
“Vendetta.”
“Vieni dunque, sposiamoci; ci sono amiche le tenebre, e gli spettri assisteranno ai nostri sponsali.”
“Quale è il dono delle nozze che mi dai?”
“Io ti darò un pugnale”.
“Il tuo pugnale ì corto”.
“Basta per giungere al cuore dei nostri nemici”.
Allora si accostarono, si strinsero le mani e stavano per cominciare il colloquio, quando, non si potendo più frenare, il Castiglione proruppe:
“Ahi! traditori, siete tutti morti”. E, balzato di un salto fuori della siepe, prese a minacciare i traditori col ferro.
Vico, Pieruccio e il Martelli lo seguono cacciando urli spaventevoli.
Capitolo Decimonono
La sfida
I congiurati, dalla subita apparizione soprafatti, dai forti gridi atterriti, mal potendo distinguere quanta gente e quale venisse loro addosso, si volsero a fuga precipitosa. Il Martelli coll’ardore del veltro si pose alla ventura dietro le tracce di uno fra loro; passarono il borgo di Santo Iacopo; con uguale prestezza la piazza di Santo Spirito traversarono, il canto alla Cuculia e le vie contigue della Fogna, del Leone e dell’Orto; non profferirono parola, imperciocchì la rapidità del corso loro impedisse la voce; erano entrambi gagliardi, entrambi di pié velocissimo, sicché l’uno poneva l’orma dove l’altro la lasciava, e spesso il fuggitivo sentì rimanersi svelti i capelli tra le dita dell’inseguente e dall’alito infiammato di lui avvamparsi le guance; continuano la fuga e la cacciata per Camaldoli, per Borgo San Frediano, lungo le mura, e riescono al Ponte alla Carraia. Qui lo inseguito avendo il buon tratto precorso il suo persecutore, si fermò e, quasi vergognando essersi lasciato vincere dalla paura, gitta via la veste di frate che lo impaccia, e, tratta la daga, si pone a capo del ponte in atto di difesa.
Quantunque il Martelli non avesse gridato accorruomo, pure, correndo vicino alla Porta San Friano, le milizie quivi stanziate udirono il rumore, ed alcuno di loro, mosso da vaghezza o da comando, si pose per buon rispetto a seguitarlo. Lui però travolto da quell’impeto non se n’era accorto, e comecchì al paragone dell’inseguito gli fosse mancata la lena, nondimeno precorreva di assai coloro che gli si erano fatti compagni.
Il fuggitivo, se lo vedendo accostare, stette in forse di ucciderlo e poi riprendere il corso; ma considerando come l’inseguente si avvicinasse lui pure con la spada nuda, nì dalle sembianze apparisse uomo da spacciarsi così ad un tratto, temé perder tempo a chiudersi ogni strada allo scampo, onde ì che, di nuovo voltate le spalle, passasse il Ponte della Carraia.
Il Martelli, confortato dal pensiero di vederselo più vicino, immaginando costui avesse fatto sosta a riprender lena e baldanzoso per riputarsi sul punto di arrestarlo, raddoppia lo sforzo, sicché in quella fuga rovinosa, percorrendo nel buio della notte uno spazio sospeso tra le acque e il cielo, non muovendo altro rumore che quello dei passi velocissimi, si assomigliavano alla visione della donna scapigliata inseguita dallo spirito del cavaliere Giuffredi intorno alla fossa dei carboni ardenti, esposta dal dottore Elinando di santa memoria, a conforto dei buoni e per terrore dei tristi.
Così trasvolando pervennero in via di Parione; colà sul canto che mena alla Vigna Nuova stette una casa onorata di cui adesso non rimangono vestigi.
Sebbene alta fosse la notte, una finestra di cotesta casa appariva illuminata da luce solitaria, quale si addice alla veglia di un filosofo o alla insonnia di un penitente. A quel punto si dirige il fuggitivo; e giuntogli dappresso, manda un fischio acutissimo. Allora fu veduta balenare la luce, come fiamma che si accenda nelle notti di estate, e sembra stella che tramuti luogo. Il fuggitivo scomparve voltando il canto, e Ludovico, di cui all’anelito sofferto per la fatica si aggiunse un palpito più veemente del primo, giunto a capo della via, si volse bramoso e non vide né udì più nulla: il fuggitivo era scomparso. Allora Ludovico pensando alla veste di frate, al luogo, ad una certa rimembranza confusa delle forme del fuggitivo, al lume mosso, un lampo sinistro d’intelligenza gli strisciò sull’anima, sentì riardergli un’ira feroce le viscere. Si avvicinò alla casa di Maria Benintendi.
Nuovi forti colpi e di mano in mano tempestavano alla porticella; sicchì la Maria, timorosa non destassero il vicinato, fattosi cuore, si reca in mano la lampada e scende:
“Ch’è questo, messeri?”
“Aprite in nome della Signoria.”
“Messeri, io sono gentildonna e sola in casa; questa magione appartiene a Niccolò Benintendi, che stanotte è dei Buonuomini al palazzo; – però avete tolto sbaglio, e lasciatemi in pace”.
“Se sola vi trovate o accompagnata, poco c’importa. Noi non iscambiamo dimora; aprite di queto od atterriamo la porta.”
Maria per lo men reo consiglio, paventando peggio, aperse l’uscio. Ludovico Martelli non aveva ad arte alterato la voce; in breve spazio anima e corpo gli aveva così stravolto la sua fiera fortuna ch’egli stesso, non che altri, non sarebbe giunto a riconoscersi per quello che fu; gli occhi a mezzo chiusi e invetriati, come quelli dell’etico; i muscoli del volto rigidamente immobili, la bocca aperta, i labbri cadenti, e d’ora in ora un anelito impetuoso gli prorompeva dalle narici dilatate; spaventevole a vedersi come la testa mozza che il carnefice afferra pei capelli e mostra in testimonio di ferocia ai popoli stupiditi.
E di vero Maria ne rimase spaventata: col capo inclinato verso la spalla, pallida, quasi vinta dal fascino, si pose a salire la scala. Il Martelli poneva il piede dove ella moveva il suo. Pervenuti a mezzo della domestica cappella, si fermarono, l’uno di faccia all’altra, né si guardavano né movevano labbro....
Finalmente Ludovico, continuando nella sua immobilità, con voce che gli usciva dai precordii incominciò a favellare: “Svelami traditore che hai riparato qua dentro....”
“Traditore?” – esclama Maria dimostrando col gesto altissimo sdegno, – “dov’ì il traditore?”
“Non te l’ho detto? Qui”.
“Io non conosco traditori....”
“Donna, che, piena dentro di putredine, tu ti mostrassi di fuori parete scialbata, bene sta: ella è questa la vostra parte, femmine! ma che in breve spazio tu abbi perduto il rimorso e il pudore, ciò, per Dio, mi spaventa. Qual è il verme velenoso che così subito guastò il bell’albero della tua vita? Or dove ti nascondi codardo dal fiato velenoso? Esci fuori…” Nessuno risponde. Dopo lungo silenzio Ludovico continua:
“O patria mia! uomini che non ardiscono mostrare la fronte t’insidiano nell’ombra; quando la notte ì più buia essi aguzzano il pugnale e ti aspettano al varco, come il ladrone sulla pubblica via!”
E di nuovo si tacque, poi con gran voce riprese:
“Esci, codardo, esci”.
Così favellando si aggirava per la stanza, quando all’improvviso levando la faccia vide un cavaliere di truce sembianza appoggiato su l’elsa della spada in atto di quiete minacciosa: lui allora, gli si avventando addosso, interrogò:
“Tu sei un traditore!…”
“Io sono Giovanni Bandini, e sgombrami il passo”.
“Tu di qui non uscirai, se non che morto”.
“Figlio di madre infelice tu sei, se più oltre ti ostini a impedirmi il cammino; ritirati, tu ne hai tempo ancora; io non voglio vederti; sappi che di rado ho replicati i miei colpi; vattene… e vivi”.
“Anzi io rimango, e muori; domani il carnefice ti scriverà l’epitafio su la cima della forca. Bandino, domani manderò la sfida e chiederò il campo a messere lo principe… badate di non ricusarla....”
“Tale e così insopportabile obbligo ho teco per avere salvata la mia vita, che in nessun altra maniera potrei sdebitamene, se non che togliendoti la tua. Il mio odio diventò, pel tuo benefizio, immortale. Apparecchiati a morire.... Addio”.