Il duello
Pagolo Spinelli, soldato vecchio di moltissima esperienza, padrino di Ludovico, con certo suo piglio soldatesco, presentatosi davanti al principe di Orange, il quale, tostochì vide entrare nella sua tenda cotesta nobile comitiva, si era alzato insieme co’ suoi baroni per complirla, proferì pacato le seguenti parole:
“Signor principe, sono qui il mio principale, messere Ludovico Martelli e il principale del capitano Giovanni di Vinci mio collega, messere Dante da Castiglione, i quali si apprestano al vostro cospetto con loro cavalli ed armi, in abito da gentiluomini, per entrare in campo chiuso e combattere messere Giovanni Bandino e messer Roberto Aldobrandi, che qui vedo presenti, loro avversari, col nome di Dio, di Nostra Donna e di San Giorgio il prode cavaliere, secondo il tempo e il luogo da voi medesimo assegnati con vostra patente del dì primo marzo 1529. Loro stanno allestiti a fare il debito loro e vi ricercano che vogliate dar loro parte del campo e sicuranza, dove confidano vincere con lo aiuto di Dio e col favore dei santi. E poichì hanno i miei principali concesso agli avversarii la scelta dell’arme, si protestano di questa capitolazione, la quale, dopo che sarà da me letta, depositerò nelle mani vostre per rimanervi come giudice ad ogni buon fine di ragione”.
Don Ferrante Gonzaga allora si trasse innanzi col conte Pier Maria Rossi di San Secondo, ambedue patrini del Bandini e dell’Aldobrandi, e favellando il primo tal dava risposta alle dichiarazioni del capitano Pagolo Spinelli:
“Signor principe, qui stanno i nostri principali messer Giovanni Bandini e messere Ruberto Aldobrandi, pronti a scendere in campo chiuso e sostenere con lo aiuto di Dio, di Nostra Donna e di san Giorgio, a tutta oltranza, finchì morte ne segua, la querela avuta dagli attori falsa e mendace; protestano accettare tutte e singole le cose contenute nella capitolazione avversaria; protestano voler combattere in camicia, con istocco, manopola scempia di ferro, cioì fino al polso, senza difesa in testa. Più presto fia, e meglio loro aggrada”.
…Già il sole declinando oltre il meriggio segnava l’ombra delle cose da ponente a levante quando Pagolo Spinello, recatosi in compagnia di Giovanni da Vinci alla tenda del principe, disse: “È l’ora”.
Ritiratosi l’araldo, e fattosi un solenne silenzio, si udiva lo squillo delle trombe; cessato che fu, comparvero fuori dai padiglioni i padrini seguiti dai loro principali, che a passi lenti e con sembianza severa s’incamminarono alla volta del principe; – seguivano dalla parte dei provocati, due araldi portanti un fascio di armi, imperciocché spettasse loro il carico di provvedere stocchi e manopole. Venuti alla presenza del principe, i padrini posero un libro degli Evangeli sopra certo altare, e fattosi ognuno alcun poco da parte, lasciarono ai lati dell’altare Ludovico Martelli e Giovanni Bandini: sporse il primo bramoso la mano sinistra e, stringendo la destra al secondo e tenendogliela ferma sopra il libro, proruppe con terribile impeto:
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“Uomo ch’io tengo per la mano, giuro per Dio e per gli suoi santi la mia querela contro a te buona e giusta, e tu combattere proditoriamente contro la patria.”
Il Bandino subito svincolando la mano e afferrando a sua posta con la manca la destra del Martelli, con voce cupa rispose:
“Uomo ch’io tengo per la mano, giuro per Dio e per gli suoi santi essere la tua querela contro di me temeraria, e possa il tuo sangue ricadere sopra la tua testa.”
Suonarono le trombe e fu fatto silenzio. I combattenti e i padrini si divisero in due partite. Dante, Bertino, Giovanni da Vinci e il conte Piermaria si pongono da un lato del campo, – Ludovico, Giovanni, don Ferrante e Iacopino dall’altro.
Allora tesero due corde che in due lizze uguali partirono il campo. I padrini con molta avvedutezza avvolsero e legarono i cordoni pendenti dall’elsa degli stocchi intorno al polso dei combattenti; quindi toltili pel braccio, li guidarono a mezzo il campo, dove distribuito con vantaggio eguale il vento e il sole, si ritirarono dicendo:
“Dio vi aiuti!”
Quando prima scesero in campo, Ludovico e il Bandino si gittarono giù dalle spalle un mantello che gli riparava dal freddo, né presero cura di metterli tanto in disparte che non potessero in seguito apportare loro impedimento.
Tremavano entrambi; se alcuno dei due avesse avuto animo più pacato, al primo colpo terminava la battaglia. I circostanti mandavano un mormorio simile a quello degli spettatori mal soddisfatti di uno spettacolo scenico: pareva che non osassero, eppure cotesta esitanza nasceva dall’odio soverchio che infiammava ambedue; avevano per trucidarsi mestiero che quella ardente passione si sfuocasse. Alloraquando diventò l’ira pacatamente omicida cominciarono le disperate percosse, e furono poste in pratica le arguzie tutte, gl’inganni e le orribili arti di tagliarsi le membra.
Volle sventura che, mentre dava il Martelli un passo indietro per ischifare una botta, il piede gli s’intricasse nel mantello, sicché venne a perdere l’equilibrio del corpo, onde il Bandino sottentrando veloce lo giunse, comeché leggermente, con la punta della spada sopra la fronte tra ciglio e ciglio. Ludovico, toltosi d’impaccio, rispose di una stoccata tesa, la quale avrebbe da parte a parte trafitto il Bandino, dove questi non avesse piegato speditamente il corpo, non tanto bene però che lo stocco nemico non gli forasse la carne sotto la poppa manca e via gli portasse una lunga brandella di pelle.
La ferita riportata da Ludovico sopra la fronte stillando sangue glien’empie gli occhi e gl’impedisce la vista: lui fruga per trovare un pannolino: non lo avendo o non lo trovando, tenta strappare una nappa di seta pendente ai cordoni avvolti intorno alla sua mano. Un solo istante china lo sguardo per vedere di bene afferrarla, e questo istante bastò al Bandino per sollevare la spada e alargliela sopra la testa.
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Improvvido di consiglio, ma ben fermo da saltare indietro o da parte, il Martelli allunga la mano e stringe il taglio della spada nemica; il Bandino la tira a sì con forza e gliela recise fino all’osso; intanto il sangue negli occhi si condensa più copioso; lui comincia a scorgere mezzo gli oggetti, confusamente, circondati da iride sanguigna; gli scorre un sudore ghiacciato per tutto il corpo; sente intronarsi le orecchie di un zufolio fastidievole: due volte si vide il ferro del Bandino minacciante sul capo, e due altre volte, riportandone sempre profonde ferite, si difese con la mano sinistra; fermo di morire, ma bramoso di trascinare seco l’avversario nella tomba, punta la spada al petto e precipita là dove gli sembra che stesse il Bandino: fu agevole a questo sfuggire quel cieco moto, pure così rapido gli venne addosso che gl’incise buona parte del braccio di larga, non già pericolosa, ferita. Il Martelli rimane scoperto e in qual parte siasi ritirato il suo avversario non vede; mentre brancolando si sforza incontrarlo, una fiera percossa gli spezza la testa e lo costringe a vacillare come uomo ebbro di vino; barcolla tre volte e quattro… sta… trema… e finalmente cade stampando della sua persona un’orma sanguinosa sopra la polvere.
“Muori!” – urlò pieno di tremenda esultanza il Bandino, e curva la gamba sinistra, stesa la destra, ambe le mani levate, l’intero corpo acconsentendo all’urto, si atteggiava a fendere fino al mento la testa del caduto; ma non ancora aveva percorso la metà del giro, che un’altra idea di vendetta più truce gliela fermò, né gli parendo potersi ormai trattenere più oltre, chiuse le mani, e la spada cadde inoffensiva sul fianco del Martelli; lui poi si rimase con le braccia aperte nella guisa dell’uomo che manda una maledizione: infatti lui intendeva lasciare a quel prostrato la vita come una maledizione. Se muore, – lui pensò, – il suo tormento cessa; se vive, gli si rinnoveranno ogni giorno i dolori della morte; non che torgli il sentimento, avrebbe dovuto dargli parte del suo; se non sente, non soffre, ed lui stava per aiutarlo a riparare dietro al sepolcro! Oh! viva e racconti la sua bocca al mondo la disfatta patita, palesi il suo aspetto al mondo la propria vergogna, duri testimonio vivente che Dio non esiste, o, esistendo, non prende cura degli uomini; o se pure la prende, i suoi giudizi paiono oltraggi di cinico, non già consigli di suprema intelligenza.
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“Vivi!” – replicò il Bandino; – “tu mi salvasti la vita, io te la rendo. Dio ha giudicato tra me e te: impara a rispettare chi val meglio di te: il cielo ti dichiara traditore… non sono loro infallibili i decreti del cielo?”
“Tu hai vinto la persona… e non la querela....”
“Ho vinto l’una nell’altra… arrenditi!”
“Dio mi ha abbandonato… una volta abbandonò il suo figliuolo… adesso abbandona la libertà… ma che più nulla di divino deve durare sopra la terra?”
“Arrenditi!”
“Mi arrendo al marchese del Guasto…”
“A me devi arrenderti… a me che tengo sotto i miei piedi la tua testa…”
“Oh! io mi arrendo…”
E che? Lui aveva giurato di voler morire, lui un’ora innanzi avrebbe tagliato la gola a chiunque si fosse osato proporgli di comporsi in pace col Bandino; e adesso si arrende così? Gran parte e la migliore di sé gli sfuggiva dal cuore insieme col sangue; dianzi le arterie gli vibravano piene di vita, adesso languidissime sembra appena che palpitino; il dolore gli tiene l’anima ingombrata per modo che non lascia luogo a pensiero di sorte. Quanti superbi disegni si porta via la vecchiezza! Quanti orgogliosi proponimenti all’appressarsi della morte impallidiscono! Gli anni penetrano nel sangue, come il mercurio, e lo irrigidiscono; la stupidità, scacciati via l’odio e l’amore dal cuore umano, se ne compone quasi un sepolcro di pietra; l’uomo è signore del momento presente; e tosto che conosce esserne signore, il momento ì passato; quello che segue rimane fuori della sua potestà.
Da ambedue le parti sconfitta: dall’un lato e dall’altro silenzio di trombe, mormorio di voci inquiete: i baroni tedeschi e spagnuoli irrompendo dentro lo spazio vietato ricordavano i colpi e le vicende del duello.
“È stato un nobile duello, quale avrebbero potuto combattere due cavalieri castigliani!” – esclamava uno Spagnuolo, cui uno smilzo Tedesco rispondeva:
“Certo degno di due baroni alemanni.”
La querela dichiararono non persa nì vinta, e dalle genti credule fu reputato segno che la fine della guerra avesse ad essere per ambedue le parti infelice; per la quale cosa avesse a giudicarsi la ragione stare di qua e di là, o piuttosto non fosse ragione in nessuna.
Dante avendo con giuramento dichiarato ultima volontà del morto Aldobrando essere stata di avere sepoltura negli avelli de’ suoi maggiori, potè trasportarsi seco il suo cadavere. Lo accomodò pertanto con amore infinito dentro ad una bara, lo fece con diligenza lavare, poi gli mise attorno l’armatura completa, sicchì pareva un guerriero il quale col sonno rifacesse le forze.
Nell’altra bara composero il Martelli.
Sul torre commiato dal principe, in segno di militare onoranza, ordinò si sparassero tutte le artiglierie; al quale frastuono la città, paurosa di sventura, rimase taciturna.