La battaglia della Gavinana




 

I Dieci, pressurati dal popolo, il quale, non trovando più sozzure e schifezze da cibare, urlava con l’urlo della fame, scrissero al Ferruccio che per amore di Dio si avacciasse; che se non poteva andare lui, spedisse ad ogni modo tutta quella gente preponendole Giovanbatista Corsini detto lo Sporcaccino, o quale altro gli paresse più idoneo; nel qual caso davano a colui che mandasse la medesima autorità. Presentata questa lettera al Ferruccio, dopo averla letta e poi ripiegata, tenendola in mano, la prese da un lato co’ denti dicendo:

Andiamo a morire ”.

Senz’altro indugio il Ferruccio si pose in via, lasciata Pisa il 1 agosto 1530 e movendo per la Valdinievole: chiesta e non ottenuta dai Pesciatini la vettovaglia, fatto mostra di prendere la via maestra e piana, prevalendosi dell’oscurità della notte, tralascia l’agevole sentiero e si getta tra i monti che gli sorgono a mano dritta nelle vicinanze di Collodi. Diventando la notte più nera, ed essendo ormai pervenuto a Medicina, castello del contado lucchese, gli parve di qui rimanersi, tanto più che in questo luogo aveva dato ritrovo a certi capi di parte cancelliera, per propria prestanza e più per le molte parentele ed amicizie a sostenere le cose della Repubblica pericolante adattissimi.

“Voi non dite la verità. Lasciate l’uomo arbitro di giudicare i casi secondo i quali deve o no mantenere la fede, ed lui vi proverà ch’ebbe sempre ragione. Rispondete, vi prego, messere commessario, alla mia domanda; che fareste voi?”

“Io! – manterrei la fede data e mi romperei il cuore”.

“Ed io serberò la fede, e, senza pure rivedere la faccia de’ miei in questa stessa notte, con le armi ed il danaro che mi trovo addosso, me ne vado in Ungheria per combattere contro il Turco e spendere la vita in favore della cristianità”.

Il due di agosto riprese l’esercito fiorentino il sentiero per le aspre giogaie di quei monti, ed affrettando, quanto meglio poteva, il passo, arrivò a notte fitta in Calamecca, castello della montagna pistoiese, di fazione cancelliera. Ferruccio considerata la stanchezza de’ suoi e il bisogno di averli ben validi nello scontro, che aspettava imminente, dell’esercito nemico, ordinò nuova posa.

Percorsa l’alba del giorno tre di agosto, che fu festa di santo Stefano, l’esercito della Repubblica continua la via. L’avantiguardia fiorentina, scesa in fondo della valle, piegò alla volta di San Marcello, là dove anche ai giorni nostri occorre una cappella di pietra grigia dedicata alla Vergine, posta lungo la strada che da Pistoia conduce a Modena. I terrazzani non conobbero il pericolo prima che sel vedessero irreparabilmente caduto addosso; la nebbia fitta impedì loro pensassero ai ripari. Irruppe pertanto nel castello la piena dei nemici: ben s’ingegnarono chiudere le porte della Fornace e del Poggiuolo, ma non poterono; chiusero quella del Borgo, e a nulla valse, imperciocchì gli assalitori accatastandovi davanti copia di legna suscitassero tale un incendio di cui anche ai tempi presenti occorrono vestigi. Dopo quel caso mutarono nome alla porta, e di porta del Borgo lo chiamarono porta Arsa, che tuttavia le dura. Il Ferruccio, ignaro che sopra il suo capo si era commessa tanto nefanda tragedia, co’ principali dell’esercito si ferma nelle stanze terrene della casa del trucidato Mezzalancia.

Il cielo presago della sventura che stava per avvenire incupì maggiormente la sua faccia, di grigio diventò nero e parve assumere gramaglie pel prossimo lutto. La pioggia dirotta allaga d’improvviso la terra.

Per altra parte il principe di Orange, pervenuto il due agosto a Pistoia, vi si fermò tutta la giornata attendendo ad ascoltare gli esploratori e spedire di ora in ora ordini e messi a Fabrizio Maramaldo e ad Alessandro Vitelli, affinché si stringessero alle spalle del Ferruccio senza lasciargli campo a ritirarsi; la qual cosa gli sembrò avere molto bene conseguita quando gli fu riportato che il capitano Cuviero con gli Spagnuoli ribelli di Altopascio, chiesto ed ottenuto perdono, si era congiunto con lui, e che Nicolò Bracciolino con mille armati di parte panciatica lo sosteneva e guidava. A ora di vespro, il principe, salito in cima del campanile del duomo, domandò ai cittadini pistoiesi che lo circondavano gl’indicassero la strada da tenersi fra i monti; della qual cosa, secondo che i ricordi dei tempi ci fanno fede, fu pienamente istruito da Bastiano Brunozzi. Appressandosi la sera, dietro la scorta di Bastiano Chiti, uomo pratico del paese, si pose in via e camminando tutta la notte si condusse la mattina sotto i Lagoni, luogo quasi ugualmente distante da Gavinana e Pistoia, e si accampò in certo piano tutto ingombro di castagni che torna sopra a San Mommì, ricoperto dal poggio che riguarda Pontepetri e le Panche, adattissimo alle insidie e tale da sorprendere senza essere scoperto il Ferruccio, quando si fosse inoltrato, per la strada ch’egli disegnava tenere. Mentre l’Orange, in questo luogo fermando l’esercito, attendeva a riconfortare gli spiriti, ecco arrivare affannoso da capo alle piante contaminato di fango un sacerdote; dalla paura turbato e dalla agonia della vendetta, trafelato di stanchezza, non trovava parole intiere; si aiutava col gesto né giungeva a farsi intendere meglio; lo consigliarono a riprendere lena, lo ristorarono con vino generoso, sicchì, tornatogli l’animo, cominciò a dire: “Ferruccio, si trova a San Marcello; la terra ormai ì stata ridotta in cenere, i popoli sepolti nelle rovine… io, per la grazia di Dio appena salvo, ho veduto con questi miei occhi trucidata tutta la mia famiglia; a che tardate? Muovetevi, se volete sorprendere il nemico come dentro una fossa”. Di ciò tanto opportunamente avvertito l’Orange dispose muoversi, molto più che conobbe a prova il breve riposo dopo la notte perduta sgagliardire piuttosto che afforzare il corpo; per lo che, recatosi in mezzo all’esercito accompagnato dai principali capitani, salì sopra un monticello e con lieto sembiante rivolto ai soldati disse loro: “Soldati, si avvicina il termine dei comuni nostri fastidi. Vinta questa battaglia, torneremo a casa onorati ed anche doviziosi. Il papa, come uomo che si fida poco di voi e meno di me, non vuol pagarci, se prima non vinciamo. Vinciamo dunque; se non per volere, mostriamoci eroi per necessità. Della vittoria sarebbe piuttosto follia disperare che sperare baldanza. In ciò mi affida la prodezza vostra in tante venture provata, la dappocaggine dei Fiorentini…”

I soldati di Orange si spingessero innanzi e facessero ogni sforzo di entrare in Gavinana prima del Ferruccio. Affrettando il passo, i cavalleggeri imperiali si accostano a Gavinana e ricercano i terrazzani aprissero le porte a nome dell’imperatore e del papa.

I principali del castello, recatisi sul ballatoio di porta Piovana, rispondono alla intimazione: aprirebbero volentieri, purché avessero fede che sarebbero lor salve le sostanze e le vite. I capitani dei cavalleggeri soggiungono; “Aprite tosto; di ciò vi malleviamo sotto parola del principe Filiberto di Orange capitano cesareo, che di poco tratto ci seguita.”

E i terrazzani da capo: “Di voi punto non ci fidiamo; aspettate che venga il principe, e quando lui proprio ci assicuri, vi apriremo le porte; né l’esitanza nostra deve adontarvi, imperciocché essendo Gavinana ab antiquo di parte cancelliera, e occorrendoci tra voi non pochi panciatici, crudelissimi nemici nostri, meno di voi sospettiamo che di loro”.

Tutte queste parole mettevano innanzi i Gavinanesi non per voglia che avessero di arrendersi, ma per dar tempo di arrivare al Ferruccio, a cui avevano mandato celerissimi messi, ed ora, per sempre più affrettarlo, si posero a suonare furiosamente le campane a martello. I messi di Gavinana incontrano il Ferruccio nella casa del Mezzalancia.

“Affrettate i passi, per Dio! messere lo commessario; Gavinana appena si tiene, tanto l’assalgono grossi i nemici d’intorno; ma per poco che tardiate, voi troverete un mucchio di rovine. Il principe d’Orange in persona comanda all’esercito”.

“Maledetta sia la paura che vi fa vedere dappertutto il principe di Orange come se fosse il trentadiavoli e la versiera! Vi pare che lui avrebbe voluto o potuto abbandonare il campo sotto Firenze?”

“Io vi giuro pel corpo di Cristo, messere Ferruccio, che Orange vi sta incontro; molti dei vostri lo hanno veduto”.

Allora il Ferruccio trasse un sospiro e tra i denti mormorò: “ Ahi! traditore Malatesta!”

Uscito all’aperto, il Ferruccio di slancio saltò in sella al suo buon cavallo e, levatosi l’elmo di testa, all’esercito, che gli stava schierato davanti come in anfiteatro, rivolse queste nobilissime parole, conservateci da Bernardo Segni al quarto libro delle sue Storie:

“So per esperienza, soldati fortissimi, che le parole non aggiungono gagliardia nei cuori generosi, ma sì bene che quella virtù che vi è dentro rinchiusa, allora si mostra più viva che l’occasione o la necessità la costringe a far prova di sé. Siamo in termine dove l’una e l’altra cosa ci si apparecchia per fare al mondo più chiara e più bella la costanza e la fortezza degli animi nostri; l’occasione vedete bellissima e sopra ogni altra onoratissima che ci si mostra difendendo con giusto petto l’onore delle armi italiane e la libertà della nobilissima patria nostra, per farvi risplendere per tutti i secoli di chiara luce; la necessità ci ì presente e davanti agli occhi, che ci fa certi che ritirandoci saremmo raggiunti dalla cavalleria nemica, e che stando fermi non avremmo luogo forte da poter difenderci né vettovaglia da poter vivere, quando bene prima entrassimo in quelle mura. Restaci adunque solo una speranza, e questa ì la disperazione di ogni altro soccorso infuorchì di quello che dalla virtù delle vostre destre infino a questo giorno state invittissime e dal vostro animoso spirito procede. Questo ci farà in ogni modo vincere; né, benché siamo meno per numero, ci dobbiamo diffidare, per la speranza, oltre a quella della virtù vostra, maggiormente in Dio ottimo massimo; che, giustissimo e conoscitore del nostro buon fine, supplirà con la sua potenza dove mancasse la forza nostra”.

E ricopertosi il capo, con feroce sembianza brandita la spada, riprese:

“Soldati, non mi vogliate abbandonare in questo giorno”.

I cavalieri imperiali, sospettando ormai la malizia dei Gavinanesi e già vedendo apparire le insegne fiorentine, non si tennero più in freno, ma, trascorrendo a mano diritta lungo le mura di Gavinana, si fecero animosamente ad incontrare il nemico.

Nessuno vinceva, e si distruggevano tutti. Alcuni cavalieri fiorentini, o trasportati dall’estro della strage, o sia piuttosto, come crediamo, desiderosi col sacrificio delle proprie persone assicurare la salute della patria, scorgendo un calle su per la costa del monte, vi salirono a stento, e quando furono giunti a conveniente altezza, gridarono: “Viva la Repubblica!” – poi spinsero giù alla dirotta i cavalli, cacciando loro nel ventre intieri gli sproni. Quando loro percossero i fianchi dei nemici, alcuni dei nostri rimbalzati dall’urto oltrepassarono volando sopra di loro e andarono capovolti ad incontrare la morte giù nel dirupo; altri caddero infranti tra le zampe dei cavalli: nondimeno così irresistibile fu l’impeto che la schiera si ruppe, e con eccidio miserabile ben molti tennero dietro nel precipizio ai nostri che tanto nobilmente si erano sagrificati. Allora crebbe il cuore ai Forentini: i capitani sopra gli altri volevano essere, siccome maggiori nel comando, così primi nel pericolo; sorse stupenda una gara di affrontare la morte; incalzano i Ferrucciani, piegano gli Orangeschi; indi a poco i cavalli, trovando dietro a sé bastevole spazio, si volgono e si danno alla fuga.

“Vittoria! vittoria!” con immense strida gridavano i soldati del Ferruccio, respinti i nemici e dispersi per la campagna, rientrando nelle mura di Gavinana. I terrazzani dai balconi, dai tetti plaudivano battendo palma a palma e sventolando candidi pannilini. Le campane sonavano a gloria.

“Vittoria! vittoria!” rispondono i cavalleggeri fuori delle mura, i quali a posta loro, ributtati i cesarei, occupavano il piano delle Vergini. Dappertutto allegrezza. Il cielo stesso placato lasciava aperto tra le sue nuvole un adito al raggio del sole, l’ultimo che salutasse il gonfalone della Repubblica Fiorentina.

E il prode Ferruccio, palpitante, bagnato di sangue nemico e de’ suoi si appoggia all’asta della lancia sotto il magnifico castagno che sorgeva sopra la piazza della Gavinana. I suoi occhi stanno rivolti al firmamento porgendo col cuore grazie fervidissime a Dio; non lo poteva con le labbra, ché lo impediva l’affanno.

…La battaglia si continua; il Ferruccio respinge dalla Gavinana il nemico, lo disperde per la campagna, e dubbioso sia per tornargli addosso da capo, non si ferma finchì vede persona davanti a sì; allora fece sosta, ed accorgendosi che la punta della stradiotta per lo spesso ferire erasi storta, si chinò e raccolse da terra uno spadone a due mani di quelli che usavano i lanzichenecchi; poi, ordinati i superstiti a chiocciola, s’incammina al castello in soccorso di quelli che vi aveva lasciato. Le torme dei cesarei intanto si erano chiuse dentro di lui e avevano invaso tutte le strade della Gavinana: i suoi ben tuttavia vi stavano dentro, ma diventati cadaveri. In quel momento il Ferruccio alzò la voce e chiamò a nome i suoi più valorosi compagni; nessuno gli risponde; la morte aveva loro resa inerte la lingua.

Ora, mentre la sua anima pensando al fato di tanti prodi sospira, due grosse bande di nemici, imbaldanziti dalla vittoria e disposti ad abusarne quanto più furono immeritevoli di conseguirla, con minacce barbariche gl’intimano da lontano la resa.

Giampagolo Orsino, ormai disperato, si accosta al Ferruccio e gli domanda:

“Signor commessario, vogliamo noi arrenderci?”

“No”, – gli risponde con forza il Ferruccio; e piegata secondo il suo costume la testa, si avventa primo contro i sorvegnenti imperiali.

Nicolò Strozzi, considerando come quel valoroso, più che a mezzo morto, potesse appena reggere la spada, non volle si esponesse a sicurissimo eccidio; onde presto si pose tra il nemico e lui, riparandogli col proprio corpo le ferite.

Ma il Ferruccio, brontolando, lo trasse in disparte e in ogni modo volle pel primo affrontare il nemico. Cessata la speranza di vincere, combattono per non morire invendicati. Gl’imperiali abborrenti di sostenere l’estreme ire di quei terribili uomini, si allargano e li bersagliano con gli archibusi da lontano. Ad ogni momento ne cadeva uno per non più rilevarsi, né i superstiti pensano ad arrendersi. Anche la Toscana ebbe i suoi Trecento e Leonida.

“Il gonfalone di Firenze! Gli angeli scendono a difenderlo: viva la Repubblica!”

Questo grido mandarono il Ferruccio e i suoi compagni, allorchì, alzando all’improvviso lo sguardo, videro sventolare al balcone di un castelletto posto sopra certa eminenza accanto le mura di Gavinana la bandiera del comune.

E al balcone si affacciò Vico Machiavelli, che con la voce e col cenno chiamava i compagni a riparare in cotesto estremo propugnacolo. Non senza nuove perdite colà si condussero; stremati com’erano di forze e di sangue, quella breve erta parve loro infinita. Sbarrarono le porte, come meglio poterono si afforzarono e dai balconi, dalle feritoie, che anche in oggi si vedono, presero a bersagliare il nemico.

Gl’imperiali, sospinti dalle minacce dei capitani, che dietro loro incalzavano con la spada nuda, molte volte salirono all’assalto, e sempre sopraffatti dalla tempesta delle palle piegarono. Maramaldo, rimasto in Gavinana, sentendo riuscire i conati invano, spumava di rabbia, e all’ultimo mandò a dire che se in mezz’ora non superavano il castello, gli avrebbe appiccati quanti erano. Si accingono all’ultima prova; le palle vengono più rare; arrivati a mezza costa scemano ancora; a piì del muro cessano affatto, stanno immobili alquanto di tempo paurosi di sorpresa, non offesi si rinfrancano, i più timidi saliscono a gara, insieme uniti si sforzano a rompere le imposte, a scalare i balconi.

I nostri non hanno più polvere, non palle, e dimentichi dei pericoli e dei propri dolori, contemplano l’agonia di un valoroso. Ferruccio giace sopra un letto di foglie castagnine; non ha parte di corpo illesa; invano tentarono arrestargli il sangue, prorompe dagli orli delle fasciature, distilla dai lini temprati. Genuflesso a destra, gli sorregge il capo Vico Machiavelli, il quale forte si abbranca il petto sotto la mammella sinistra per impedire anch’egli lo sgorgo del sangue da una ferita ricevuta in quella parte, e dalla manca simile cura gli rende Annalena, anch’ella genuflessa.

Ardono in terra alcune lampade, le quali quando il sole illumina il nostro emisfero partoriscono effetto sempre solenne nell’uomo, imperciocché accennino la presenza della morte – o Dio.

La morte con la mano grave chiudeva gli occhi al Ferruccio, ma l’animoso, sforzandosi scoterne il peso, avventava la pupilla coruscante a modo di baleno verso il balcone. Allora il Ferruccio non contese più oltre la potenza della morte, lasciò abbassata la palpebra e sospirò con mestissimo accento:

“È caduto! È caduto!”

All’improvviso le porte sfasciate si disfanno, irrompe il nemico nelle sale del castello. Di stanza propagato in istanza, ecco percuote le orecchie del nemico una cantilena di sacre preci, un singhiozzare sommesso; un suono di pianto, siccome avviene nelle case che sta per visitare la morte. Entrarono e videro l’agonia del campione della Repubblica, o piuttosto dell’ultimo fra i grandi Italiani.

Ciò dicendo mosse per aggiungere alle parole l’esempio e già stendeva le mani su quelle sacre membra, quando Vico Machiavelli saltando all’improvviso in piedi lo respinse lontano, poi levatasi la destra dalla ferita strinse la spada ottusa nel taglio, troncata nella punta, e l’alzò per percuoterlo. Ahimé! Il sangue spiccia a zampilli fuori della ferita, lui vacilla com’ebbro e, dopo alcuni vani conati per sostenersi, stramazza duramente per terra. Annalena gittando un urlo disperato abbandona il capo del Ferruccio e si protende smaniosa sul corpo del marito.

Dirimpetto alla chiesa della Gavinana sorge una casa, una volta Battistini, oggi appartenente ai Traversari. La porta principale essendo elevata assai dal terreno, vi si salisce mediante una scala a due branche che lasciano uno spazio di alquante braccia quadrate davanti la porta.

Qui sta Maramaldo volgendo di tratto in tratto lo sguardo verso la porta Apiciana per vedere e il Ferruccio giungesse. Finalmente l’empia voglia gli rimase soddisfatta; si apre la folla, e il Ferruccio, tratto a vituperio con ineffabile angoscia sopra i bastoni delle picche, si avvicina alla casa Battistini.

Maramaldo con subito alternare diventa in volto bianco e vermiglio. Glielo distesero ai piedi, e lui stette lungo tempo a guardarlo senza potere profferire parola, poi cominciò tra lo scherno e la rampogna:

“Infelice! Vedi a che ti ha ridotto il folle pensiero di resistere alle armi di sua maestà Carlo V imperatore e re, e del Beatissimo Padre? Vedi, sconsigliato, come in mala ora lasciavi il fondaco? Credevi forse che il combattere battaglia fosse così agevole che misurare panni? Stolto!

Tu hai senza scopo empito i sepolcri di tuoi concittadini. Tu, alla vanità che ti rode compiacendo, hai sagrificato migliaia di uomini. Dio ti ha riprovato, Dio ti confonde ai miei piedi; io potrei calpestarti, e tu lo meriteresti; ma rispetto in te il segno del cristiano e ti risparmio. Il Signore nella sua misericordia ti concede spazio sufficiente di vita per riparare ai tuoi falli; adempi al comando dell’Eterno e chiedi pubblica perdonanza all’imperatore…”

E questi vedendoselo ormai venire addosso, lo guarda in volto e sorridendo gli dice:

“Tu tremi! Ecco… tu ammazzi un uomo morto”.

E il ferro dell’assassino penetrò fino al manico nell’intemerato petto del prode Ferruccio. La bandiera nemica serve di lenzuolo funerario al Ferruccio… Lui lo vede… esulta e spira l’anima immortale.

 

Epilogo

 

La donna fuggendo e il vecchio inseguendo scorrono in piano di Doccia, rivedono la fonte dei Gorghi, il rivo delle Catinelle, si accostano a Gavinana, piegando a destra lungo le mura, e finalmente ansanti si fermano nel bosco delle Vergini a piì di un castagno. In verità uno dei più belli che crescano in quel campo, dove ne vegetano dei bellissimi, e nel suo tronco, ad arte scortecciato, mostrava una croce.

Cadendovi davanti genuflessa, appoggiandovi le mani una sopra l’altra, e su le mani declinando la testa, stette la donna immobile, bianca e, dove il palpito del seno non l’avesse dimostrata viva, uguale in tutto a statua di marmo.

E il vecchio le veniva accanto piegando anch’egli i ginocchi e, come lei, le mani e il capo appoggiando al tronco del castagno, senza parlarle, senza consolarla, senza pure toccarla; i suoi dolori erano di quelli che per parole non si placano; soltanto piangeva.

Immemore dapprima di ogni cosa terrena, la derelitta per quel pianto incessante si sentiva a mano a mano, dai truci fantasmi della immaginazione chiamata agli affanni della vita; allora si accorgeva del vecchio, che le plorava a canto e le si abbandonava nelle braccia, con le sue guancie premeva le guancie di lui, e confondevano insieme l’alito, i sospiri, le lagrime. Quanta inenarrabile angoscia aveva accumulato il Signore sul capo di quelle due creature!

I montanari, indovinando la causa per cui loro non potevano abbandonare coteste rupi, li compassionavano, ed anzi anch’essi, miti sotto il flagello di Dio, con ossequio religioso li proseguivano. Allo approssimarsi del verno, più che altrove, diviene squallida la natura su i monti, il vento si agita inquieto giù per le valli, lungo le forre, e il mormorio che nasce dalle foglie cadute menate in volta e diffondentesi per tanto spazio di paese, rassembra un lamento che mandino gli alberi e la terra nel vedersi rapire la bella veste di cui andarono superbi nelle migliori stagioni dell’anno.

Una sera dei primi giorni del verno, all’ora del crepuscolo, in quel momento in cui la luce e le tenebre si contendono il cielo, e l’anima umana vacilla tra le cure della vita e i pensieri della eternità, in cotesto istante, che anche all’assassino viene involontaria una preghiera della infanzia su i labbri, e nel cuore un pensiero per la madre che lo amò tanto, in quell’ora di mestizia e di pace, Lucantonio si presentò al metato [17]della casa nuova. Teneva in collo, sorreggendola col braccio destro, Annalena, che dalla pieghevolezza dei contorni sembrava addormentata, se non che la destra le pendeva inerte lungo il fianco, la manca dietro il dorso del vecchio, e questi si aiutava sorreggendosi forte al bastone, il capo aveva scoperto, i suoi capelli bianchissimi si disegnavano nella porpora del crepuscolo, gli avresti detti tinti nel sangue. Giunto in mezzo al metato, volgendosi ai montanari quivi raccolti, con ferma voce e non pertanto sinistra domandò se alcuno di loro per amore della Madonna e per i suoi danari avesse voluto accompagnarlo al piano delle Vergini con palo e zappa, onde assisterlo in un’opera pia.

“Per amore della Vergine e vostro senz’altro”, – risposero i montanari, – “noi vi accompagneremo”; e le loro donne, mogli e figlie, fosse pietà, fosse voglia curiosa, o l’una cosa e l’altra, vollero ad ogni patto seguitarli.

Procederono a due a due come in processione silenziosi; veniva ultimo il vecchio; lui non aveva permesso a nessuno di toccare Annalena; e sì che quel peso doveva gravarlo, e ad ogni passo che mutava, pareva accostarsi di un anno al sepolcro. Ad un tratto il vecchio proruppe nel cantico dei morti e supplicò al Signore Perché nella sua immensa misericordia avesse compassione di lui. E gli altri vennero ad ogni verso rispondendogli, sebbene ignorassero chi e dove fosse il defunto.

Lucantonio gli fece fermare nel bosco delle Vergini, a piì di un castagno, ordinando scavassero colà dove additava. Tolta alcun poco di terra, la vanga incontra stritolando ossa umane; il montanaro lascia l’arnese ficcato nella terra e rifugge inorridito.

“Continua l’opera, montanaro”, – con voce solenne riprende Lucantonio, – “tu non profani le ossa dei morti, io riunisco la moglie al marito, questa ch’io tengo su le braccia è la sposa, lo sposo giace là dentro, il sepolcro sia il talamo di ambedue. Ieri all’alba ella svenne e diventò fredda… io la esposi al sole… l’avviluppai in caldi pannilini… col mio fiato mi sono ingegnato riscaldarle le mani, ma ella si è fatta sempre più fredda… l’ho chiamata co’ nomi più cari… Vieni, le ho detto, sebbene questo pellegrinaggio mi avvelenasse il sangue, vieni, andiamo a visitare la fossa di Vico. Non mi ha risposto… Io l’ho tenuta per morta: ella difatti è morta…”

Il montanaro continua a scavare la fossa, e il vecchio soggiunge favellando ai circostanti:

“O madri! questa povera creatura non conobbe sua madre: o padri!… ella non ebbe le paterne carezze… La sua anima fu tesoro di amore… e per lungo tempo la sventura si appigliava ai lembi di questo e di quello, interrogando: Chi devo amare? Imperciocchì io l’era servo, e quando ella ebbe trovato un gentile garzone, prode e dabbene, Dio glielo ha tolto. Questi giovani appena si conobbero nella vita, ora staranno insieme una eternità. Lode al Signore!”

I montanari mal sapendo se quella lode al Signore uscisse sincera dal labbro del vecchio, o in fondo a quel discorso sonasse accento di disperazione, scherno o rampogna, piansero, calarono il corpo di Annalena nella fossa – e le pregarono pace.

La notte diventò profonda, i montanari tolsero commiato; Lucantonio voleva pagarli, ma si ristette, Perché le lacrime non si pagano. Il vecchio cortese chiamò un fanciullino che gli era stato sempre al fianco e, postogli nelle mani quanto si trovava a possedere di danaro, gli parlò sommesso: Quando tuo padre avrà fame, e tu dagli questo.

Rimasto solo, così al buio incise sul tronco del castagno il nome di Annalena sotto quello di Vico, poi si accomodò a sedere con le spalle appoggiate al tronco, le mani conserte e abbandonate nel grembo, le gambe tese, il capo chino sul seno.

Il montanaro a cui il figlioletto aveva dato il danaro del vecchio, cercandolo il giorno appresso, lo rinvenne seduto a piè del castagno; lo reputando addormentato, aspettò gran tempo perché si svegliasse, poi lo tentò per le braccia… Non si scosse, perché era morto.

Raccontano che quel bosco si chiamasse prima della Vergine in onore della Madonna, ma dopo quel caso lo dicessero delle Vergini, in memoria ancora di Annalena quivi sepolta.

Ho cercato il castagno che protegge con le sue ombre il sepolcro di quei tre miseri, e non l’ho trovato; ma se, come assicurano, gli alberi crescono di diametro strato sovrapponendo a strato senza cancellare le incisioni del coperto, è da sperarsi che, abbattendo talvolta qualche castagno del bosco delle Vergini, il bottaio che ne farà caratelli trovi quel tronco consacrato dalla sventura.

 

Vocabolario

 

 

A

 

achib u so = archib u gio – аркебуза

addit a re – указывать

ademp i re – выполнять

adont a re – оскорблять, обижать

adoper a re – употреблять, применять

allorchì – когда

alqu a nto – несколько, некоторый, достаточный

ammans i re – укрощать

ammol i rsi – смягчаться, расслабляться

ans a nte – задыхающийся, запыхавшийся

appicc a re – прикреплять, привешивать

ar a ldo – герольд, глашатай

arc a no – тайна

a rgine – плотина, насыпь, преграда

ass a lto – штурм, нападение

assest a re – приводить в порядок, налаживать

assopim e nto – дремота

a sta – шест, жердь, копье

augell e tto = augell i no – птичка

ausp i cio – предзнаменование, покровительство, пожелание

avvezz a re – прививать привычки, приучать

avvilupp a rsi – заворачиваться, кутаться

 

B

 

balen a re – сверкать, блеснуть, мелькнуть

balestr a re – стрелять из арбалета / из самострела

bal i a – власть, господство, произвол

balu a rdo – оплот, защита, бастион

barcoll a re – качаться, шататься

bar e lla – носилки

b e cco – клюв

bers a glio – цель, мишень

big o ncia – кадка, чан; a bigonce – ведрами

br a nca – лапа, коготь

brind e llo – лоскут; brindelli – лохмотья

brontol a re – ворчать, бормотать, громыхать (о громе)

buf e ra – буря, шторм

 

C

 

cagi o ne – причина, повод

calz a ri – сандали

c a ntico – гимн, песнопение

carat e llo – винный бочонок

cast a ldo – мажордом, фермер

cesar e o – кесарский, придворный

chetam e nte – спокойно, тихо

ch i no – опущенный, склоненный

chi o ma – волосы, грива

cigli o ne – насыпь, дамба, гребень

con a to – попытка, усилие

corrug a rsi – морщиться

cosp e tto – присутствие

cremes i no – ярко‑красный, кармазинный

crep u scolo – сумерки

cr e ta – глина

cr u ccio – огорчение, горе, забота

 

D

 

dacché – с тех пор, с того времени как, когда, так как

d a ga – тесак, палаш

dest a rsi – просыпаться, пробуждаться, возникать

deturp a re – обезображивать, уродовать

dimestich e zza – дружеские отношения, фамильярность, знания, опыт

divamp a re – воспламеняться, загораться

dov i zia – изобилие, богатство

 

E

 

e bbro – пьяный, опьяненный

ecc i dio – резня, массовое убийство

emisf e ro – полушарие, полусфера

esult a nza – ликование, радость, веселье

 

F

 

f a nte – пехотинец, солдат

fanter i a – пехота

f a uci – глотка, зев, пасть

f a usto – счастливый, благополучный

favell a re – говорить, разговаривать

ferit o ia – отверстие, щель, бойница

f e rvido – горячий, пылкий

f o sco – темный, тусклый, мрачный

f o ssa = f o sso – яма, канава, овраг, могила

fr a ngia – бахрома

g e rme – зародыш, зачаток, семя, отпрыск

gherm i re – хватать, отнимать, вырывать

g i glio – лилия

giog a ia – горная цепь, горный хребет

gonfaloni e re – гонфалоньер

gram a glie – траурное одеяние

 

I

 

imm e more – забывчивый, забывший

imperciocché – ибо, так как, потому что

impr o nta – отпечаток, оттиск

ineff a bile – невыразимый, неописуемый, непередаваемый

inenarr a bile – неописуемый, невыразимый

in fu o ri – снаружи, выпирающий, выдающийся вперед

ingi u ria – оскорбление, обида, вред, ущерб

in i quo – незаконный, несправедливый, неприятный

intemp e rie – непогода, ненастье

intim a re – требовать, приказывать, предписывать

investit u ra – вступление в исполнение обязанностей, инвеститура

 

L

 

lanzichen e cco – ландскнехт

leggi a dro – изящный, грациозный, очаровательный

lev a nte – восходящий

l i zza – арена, состязание

 

M

 

magnanimità – великодушие, благородство

mallevi a re – гарантировать, (по)ручаться

man o pola – рукоятка, ручка

m a rra – цапка, тяпка, мотыга

masser i zia – утварь, обстановка, бережливость

mazzi e re – булавоносец

mess e re – мессер, господин (обращение)

micidi a le – смертельный, губительный, вредный

modanat u re – карниз, облом

mol e stia – беспокойство, неудобство

morm o rio – шорох, шелест, журчание, говор

m u gghio – шум, рокот (моря), завывание (ветра)

 

N

 

n a ppa – кисть, кисточка, замша

nef a ndo – мерзкий, гнусный, гадкий

 

O

 

oltr a ggio – оскорбление, позор, ущерб

o nde – откуда, отчего, чтобы, который

 

P

 

p a lmo – пядь, ладонь

parric i da – отцеубийца, предатель родины

patim e nto – страдание, мучение, вред

pat i rsi – уезжать, удаляться; отдаляться

pennonc e llo – флагшток, рея

pi a ga – рана, язва, бедствие

p o rpora – пурпур

procacci a re – добывать, доставать

procell o so – бурный

proc i nto – готовность

pr o de – смелый, храбрый, доблестный

proffer i re – преподносить, дарить

propugn a colo – укрепления, бастион, крепость

 

R

 

ramp o gna – нахлобучка, нагоняй, внушение

rec a re – причинять, наносить, доставлять

rever e nza – уважение, почтение; благоговение

rib a ldo – мошенник

risurrezi o ne – воскресение, воскрешение, возрождение

r o co – хриплый

 

S

 

sacerd o zio – священство

santu a rio – святилище, храм

sc a lzo – босой, разутый

scarl a tto – ярко‑красный (цвет)

sc e ttro – скипетр, жезл

sch e rno – насмешка, издевательство

schiam a zzo – крик, шум, гам

scongi u ro – заклинание, мольба, торжественная клятва

scudi e ro – щитоносец, оруженосец

sc u re – топор, секира

sembi a nza – образ, подобие, черты (лица)

sm i lzo – тонкий, худой, сухопарый

socc o mbere – не выдерживать, поддаваться, падать под тяжестью

soccorr e re – помогать, приходить на помощь

sollazz a re – развлекать, веселить, забавлять

spacci a re – продавать, выдавать, распространять

spilluzzic a re – есть маленькими кусочками, поклевать

sp o glia – покров, оболочка, кожа

spons a li – свадьба

spr o ne – шпора

st a nga – засов, жердь, шест

stend a rdo – знамя, штандарт

st i rpe – род, племя

strarip a re – выходить из берегов, разливаться

sud a rio – саван, покрывало, платок

sugg e llo – знак, свидетельство

sup i no – лежащий на спине, рабский

sviscer a re – потрошить, вспарывать живот

 

T

 

tabern a colo – часовенка, шатер

t a lamo – брачное ложе

tar o cco – обман, надувательство

t e glia – большая сковорода, противень

t e mpio – храм, собор

t e pido – теплый, вялый

trab a cca – палатка, шалаш, барак

tramb u sto – суматоха, беспорядок, волнение

trast u llo – игрушка, забава

trecc o ne – мелкий торговец, продавец фруктов

tregg e a – леденцы, драже

tr u ce – свирепый, жестокий

trucid a re – зверски убивать

t u rba – скопление народа, расстройство, нарушение

 

U

 

uligin o so – влажный

u sbergo – панцирь, кольчуга, защита

 

V

 

v a rco – перевал, проход

veem e nte – пылкий, стремительный

v e glia – бдение, бодрствование

v e rno – зима, холод

versi e ra – ведьма, чертовка

vettov a glia – провиант, продовольствие

vieppiù – еще больше

vill a nia – грубость, хамство

v i scere – чувство, сердце, лоно

vitup e rio – бесчестье, позор, брань

v o rtice – вихрь, водоворот, завихрение

 


[1]В электронной версии книги ударные гласные выделены жирным или жирным курсивом (в словаре) – прим. верстальщика

 

[2]= così dicendo; favellare = dire.

 

[3]giacere = stare (лежать)

 

[4]prorompere = dire (воскликнуть)

 

[5]onde = affinché

 

[6]Jacopo Passavanti (1302–1357) – uno scrittore e architetto italiano

 

[7]Luigi Alamanni (1495–1556) – un poeta, politico e agronomo italiano

 

[8]essa – la stanza

 

[9]vostra = Sua (старая форма вежливости: вместо Lei используется voi)

 

[10]figliuoli = figli

 

[11]essa – la camera

 

[12]Filiberto di Châlons (1502–1530) – un condottiero francese, nonché principe d’Orange e viceré di Napoli dal 1528 al 3 agosto 1530

 

[13]Benedetto Varchi (1503–1565) – un umanista, scrittore e storico italiano

 

[14]cotesto = questo

 

[15]meco = con me; teco = con te

 

[16]Aurelio Agostino d’Ippona (354–430) – un filosofo, vescovo e teologo latino, autore delle Confessioni.

 

[17]luogo dove i contadini seccano le castagne

 



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